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Stop Hate for Profit: da Coca Cola a Unilever, i big sospendono la pubblicità a pagamento su Facebook

Stop Hate for Profit: da Coca Cola a Unilever, i big sospendono la pubblicità a pagamento su Facebook

Per il gruppo di Menlo Park, il business della pubblicità a pagamento su Facebook e Instagram vale circa settanta miliardi di dollari ogni anno: un quarto di questa cifra proviene da grandi investitori e, proprio in questi giorni, rischia di andare in fumo grazie alla campagna globale Stop Hate for Profit.

Stop Hate for Profit è l’iniziativa messa in campo lo scorso 17 giugno dalla ONG statunitense Color of Change per spingere il colosso dei social media a intervenire con maggiore decisione contro i contenuti altamente problematici che da sempre circolano sulla piattaforma: fake news, discorsi che incitano all’odio e alla violenza, post a sfondo razzista e discriminatorio.

Per raggiungere il proprio obiettivo, l’iniziativa Stop Hate for Profit esorta tutte le aziende presenti sulla piattaforma a sospendere, almeno per tutto il mese di luglio, le campagne di paid advertising. Tra le prime multinazionali che hanno aderito scegliendo di mettere in pausa i propri investimenti ci sono realtà del calibro di Coca Cola, Unilever e Verizon.

Alla campagna di boicottaggio, hanno poi iniziato a unirsi altri brand come Honda, Ford, Levi Strauss, Patagonia e The North Face, per un totale di centosessanta aziende, che hanno dichiarato pubblicamente uno stop agli investimenti in Facebook e Instagram advertising, fino a quando i social di Mark Zuckerberg non prenderanno posizione segnalando i post a sfondo razziale e di istigazione alla violenza, primi fra tutti quelli di Donald Trump.

Nei giorni scorsi, Facebook ha accusato il colpo in termini di reputazione e immagine, come testimoniato dalla brusca contrazione del titolo in borsa (-8,6%) nella giornata di venerdì 26 giugno, con una perdita di miliardi di dollari di capitalizzazione in poche ore.

La risposta di Zuckerberg quindi non si è fatta attendere. Nel fine settimana Facebook ha dichiarato che etichetterà i post dei politici, qualora ritenuti falsi, discriminatori o contenenti informazioni fuorvianti, pur non eliminandoli nel nome dell’interesse pubblico.

«Investiamo miliardi di dollari ogni anno per mantenere la nostra comunità sicura e lavoriamo costantemente con esperti esterni per rivedere e aggiornare le nostre policy» ha dichiarato in una nota: «Abbiamo bandito duecentocinquanta organizzazioni della supremazia bianca da Facebook e Instagram. Gli investimenti che abbiamo fatto in Intelligenza Artificiale ci permettono di individuare quasi il 90% dei discorsi d’odio su cui interveniamo prima che gli utenti ce li segnalino. Sappiamo di avere ancora molto lavoro da fare e continueremo a collaborare con i gruppi per i diritti civili e altri esperti per sviluppare ancora più strumenti, tecnologie e policy per continuare questa lotta».

Basterà?

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Meno articoli, più giornalisti, più lettori: la formula vincente di Le Monde

Meno articoli, più giornalisti, più lettori: la formula (vincente) di Le Monde

Qual è la formula in grado di decretare il successo di una testata giornalistica? Forse il contenimento dei costi, meglio se accompagnato da un aumento della produttività. Con le nuove tecnologie, poi, è ancora più semplice: un giornalista da solo può confezionare molti più articoli oggi rispetto al passato. Quindi: più articoli, più clic, più guadagni per la testata. Sembra sensato, eppure l’industria dei media tradizionali è in crisi, mentre quelli che si sono salvati lo hanno fatto a discapito della qualità.

Lo scorso 20 gennaio, il direttore del quotidiano francese Le Monde Luc Bronner ha postato un tweet che sembra legittimare un cambio di rotta: per salvare il giornalismo, un’altra strada è possibile.


Scrive Luc Bronner che, fra il 2018 e il 2019, Le Monde ha ridotto del 14% il numero degli articoli pubblicati e che, parallelamente, ha assunto più giornalisti – per un totale di circa cinquecento persone che lavorano per la testata – dando loro il tempo di concentrarsi maggiormente sulle inchieste.

Il risultato? Il numero di lettori sul web (e sulla carta!) è aumentato dell’11%. Più giornalisti, meno articoli, più lettori. Un’equazione che a primo impatto ha dell’incredibile, ma che in realtà nasconde un’intuizione alquanto semplice. Puntando su un giornalismo di prima scelta, il numero dei lettori è aumentato.

Il caso Le Monde – meno isolato di quanto sembri – pare suggerire che, in un mondo affollato di notizie gratuite scadenti, postate frettolosamente e a volte volutamente fasulle, c’è un pubblico disposto ad acquistare un’informazione sicura, affidabile, verificata. È lo stesso ragionamento che ogni mese spinge milioni di persone a pagare l’abbonamento a Netflix o a Spotify: la garanzia di un prodotto di qualità!

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Denzel Washington ha accusato la stampa di diffondere fake news

Denzel Washington ha accusato la stampa di diffondere fake news

«Se non leggi i giornali non sei informato, se li leggi sei male informato». In due semplici battute, la diagnosi e la critica, lo smarrimento e il paradosso dell’uomo contemporaneo di fronte al dibattito globale su quella che è stata definita “post verità” o fenomeno delle fake news.

A pronunciarlo in una breve intervista è stato l’attore statunitense Denzel Washington. Che si è aggiunto così all’ormai vasto coro di critiche verso la dilagante disinformazione propagata dal circuito mainstream.

Una delle maggiori problematiche del giornalismo contemporaneo – spiega l’attore – riguarda il concetto di “verità”. Nel momento in cui la preoccupazione principale per chi si occupa di informazione consiste nel comunicare una notizia prima di tutti gli altri – spesso a discapito dell’autenticità dei dati e di una corretta identificazione delle fonti – automaticamente chi legge i quotidiani corre un enorme rischio: quello di essere disinformato.

Si tratta di questioni complesse, opache, contraddittorie, dove la zona grigia è molto più ampia del bianco e del nero. Quand’è che un’imprecisione diviene bufala, il pettegolezzo diviene notizia, o la fake news diviene strumento di propaganda o di business? È cambiato lo scenario dei media, i ruoli sono meno chiari e le responsabilità poco definite.

C’è chi per “curare” la malattia delle fake news adopera il fact checking, ossia la confutazione, attraverso strumenti o fonti attendibili, delle bufale che circolano in rete, sui giornali o in tv. Ma così decade automaticamente quella che è, a tutti gli effetti, la maggiore responsabilità dei giornalisti.

Come ha detto l’attore si tratta semplicemente di: «dire la verità. Non solo arrivare per primi, ma dire la verità».

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