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Giornalisti e uffici stampa: storia di una relazione complicata

Giornalisti e uffici stampa: storia di una relazione complicata

Sì è il caso di dirlo: tra giornalisti e uffici stampa la relazione è complicata. Ed è proprio su questo legame professionale, inevitabile, tra la prima categoria e la seconda ( alla quale apparteniamo noi di eos comunica) che si snoda la survey realizzata da Mediaddress e Eco della Stampa, due dei principali service media italiani.

Obiettivo? Raccogliere le impressioni dei giornalisti sulle modalità di comunicazione con gli uffici stampa.

UNA RISPOSTA IMPORTANTE

Il primo dato che emerge è (di per sé) una notizia. Il sondaggio ha raccolto oltre 15.000 risposte per un totale di circa 400 giornalisti coinvolti. Si tratta di un numero significativo che testimonia il desiderio della categoria di indagare il rapporto con le agenzie di comunicazione.

IL COMUNICATO STAMPA: UNO STRUMENTO FONDAMENTALE

Un’evidenza che emerge dalla survey riguarda il  “comunicato stampa” , lo strumento imprescindibile dell’ufficio stampa e che i giornalisti ritengono fondamentale. L’82% del campione, infatti, dichiara di utilizzarlo per impostare il proprio articolo, ed è ritenuto una fonte autorevole da quasi il 74% dei giornalisti. Quasi il 90% degli intervistati, infine, dichiara di consultare i comunicati stampa per la stesura di un pezzo o di una ricerca.

QUANTITA’ VS QUALITA’

Quantità e qualità dei comunicati stampa non soddisfano del tutto le esigenze: più del 90% dei giornalisti riceve ogni giorno oltre 10 comunicati stampa e più del 40% oltre 50, un numero troppo elevato per poter essere gestito in maniera adeguata. Meno di un quarto (23,8%) riesce a leggere solo parzialmente tra il 10 e il 30% del materiale che riceve, e un risicato 10% riesce a leggerne più del 70%.

Le motivazioni di questo disinteresse diffuso? A più dell’83% dei giornalisti i comunicati ricevuti non interessano! Più della metà (52%) non li ritiene utili, e quasi il 10% ritrova le mail nello spam (dato che apre una riflessione importante su un flusso di informazioni via email troppo elevato per poter essere sostenibile ed efficace).

Sulla qualità di quello che si riceve, più del 58% dei giornalisti si dice “abbastanza soddisfatto”, e solo il 6% si ritiene “pienamente soddisfatto”: il 58% ritiene le notizie “esaustive”, il 67% “attendibili”, il 64% “utili”.  Anche sulle modalità di contatto la mail rimane il mezzo che piace di più, con oltre il 95% di preferenze, seguita dal telefono (32%) e dai canali social (22%).

COSA MIGLIORARE? 

Ci rincuora che i giornalisti comprendano (e apprezzino) l’importanza di un comunicato stampa fatto bene.

Come rappresentanti dell’altra parte della relazione non possiamo che esserne contenti, lavorando costantemente al meglio per produrre strumenti di lavoro ‘adeguati’. E se ultimamente “fake news” e gossip sono al centro di tante pagine di quotidiani, soprattutto online, (ne abbiamo parlato pochi mesi fa in questo articolo dedicato a un famoso caso di cronaca), il nostro desiderio è quello di voler essere al fianco di chi lavora in redazione con informazioni e notizie di qualità, “utili”, “attendibili” ed “esaustive”.

Un suggerimento per i ‘colleghi giornalisti? Per non avere la posta intasata…rispondeteci anche solo con un “GRAZIE”!

 

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Il giornalismo? Si fa su Linkedin! L’Economist ne sa qualcosa.

Il giornalismo?

Si fa su Linkedin. Parola di Economist

Per fare giornalismo occorre scegliere bene su quale social network stare. E’ finito il tempo del basta esserci, occorre avere una strategia. E’ quello che hanno fatto all’Economist, storico settimanale d’informazione politico-economica in lingua inglese, dove per due anni hanno studiato il modo migliore per essere presenti su Linkedin prima di tutto, contando su un bacino di oltre 700 milioni di utenti tra professionisti del business e persone alla ricerca di un impiego. Qualche numero sul social network per provare a contestualizzare: la consultazione da mobile, soprattutto per le notizie e l’informazione, è in forte espansione e il numero di utenti mobili di LinkedIn lo riflette: parliamo di 63 milioni di utenti unici al mese che consultano il social dal telefonino. Chi accede al social network? Parliamo della piattaforma di social media più utilizzata tra le società Fortune 500 con oltre mezzo miliardo di professionisti di tutto il mondo che si riuniscono su LinkedIn.

Insomma, studiare una strategia di content mirata per un giornale tanto influente come l’Economist non è stata affatto una mossa sbagliata. Anzi! In un anno i follower sono cresciuti del 39,5 per cento, i commenti sono aumentati del 251 per cento e, come risultato finale, sono cresciuti di molto gli abbonamenti provenienti dal social network,  fino ad arrivare ad un più che considerevole aumento del 300 per cento. Certo, Facebook e Twitter non sono stati abbandonati, si continua a fa condivisione ed a portare traffico al sito, ma non sono più il luogo principe in cui fare media business.

Qual è stata la strategia dell’Economist su Linkedin? Tenendo conto della differenza di fuso orario per una testata che viene letta in tutto il mondo, ogni giorno vengono pubblicate nove storie che spaziano, come la rivista online e cartacea sui temi dell’attualità, dell’economia, che resta il punto cardine, della politica e della cultura. E alcune di queste notizie trovano spazio anche sul canale YouTube come l’intervista a sir David Attenborough, divulgatore scientifico e naturalista britannico. 

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Meno articoli, più giornalisti, più lettori: la formula vincente di Le Monde

Meno articoli, più giornalisti, più lettori: la formula (vincente) di Le Monde

Qual è la formula in grado di decretare il successo di una testata giornalistica? Forse il contenimento dei costi, meglio se accompagnato da un aumento della produttività. Con le nuove tecnologie, poi, è ancora più semplice: un giornalista da solo può confezionare molti più articoli oggi rispetto al passato. Quindi: più articoli, più clic, più guadagni per la testata. Sembra sensato, eppure l’industria dei media tradizionali è in crisi, mentre quelli che si sono salvati lo hanno fatto a discapito della qualità.

Lo scorso 20 gennaio, il direttore del quotidiano francese Le Monde Luc Bronner ha postato un tweet che sembra legittimare un cambio di rotta: per salvare il giornalismo, un’altra strada è possibile.


Scrive Luc Bronner che, fra il 2018 e il 2019, Le Monde ha ridotto del 14% il numero degli articoli pubblicati e che, parallelamente, ha assunto più giornalisti – per un totale di circa cinquecento persone che lavorano per la testata – dando loro il tempo di concentrarsi maggiormente sulle inchieste.

Il risultato? Il numero di lettori sul web (e sulla carta!) è aumentato dell’11%. Più giornalisti, meno articoli, più lettori. Un’equazione che a primo impatto ha dell’incredibile, ma che in realtà nasconde un’intuizione alquanto semplice. Puntando su un giornalismo di prima scelta, il numero dei lettori è aumentato.

Il caso Le Monde – meno isolato di quanto sembri – pare suggerire che, in un mondo affollato di notizie gratuite scadenti, postate frettolosamente e a volte volutamente fasulle, c’è un pubblico disposto ad acquistare un’informazione sicura, affidabile, verificata. È lo stesso ragionamento che ogni mese spinge milioni di persone a pagare l’abbonamento a Netflix o a Spotify: la garanzia di un prodotto di qualità!

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Denzel Washington ha accusato la stampa di diffondere fake news

Denzel Washington ha accusato la stampa di diffondere fake news

«Se non leggi i giornali non sei informato, se li leggi sei male informato». In due semplici battute, la diagnosi e la critica, lo smarrimento e il paradosso dell’uomo contemporaneo di fronte al dibattito globale su quella che è stata definita “post verità” o fenomeno delle fake news.

A pronunciarlo in una breve intervista è stato l’attore statunitense Denzel Washington. Che si è aggiunto così all’ormai vasto coro di critiche verso la dilagante disinformazione propagata dal circuito mainstream.

Una delle maggiori problematiche del giornalismo contemporaneo – spiega l’attore – riguarda il concetto di “verità”. Nel momento in cui la preoccupazione principale per chi si occupa di informazione consiste nel comunicare una notizia prima di tutti gli altri – spesso a discapito dell’autenticità dei dati e di una corretta identificazione delle fonti – automaticamente chi legge i quotidiani corre un enorme rischio: quello di essere disinformato.

Si tratta di questioni complesse, opache, contraddittorie, dove la zona grigia è molto più ampia del bianco e del nero. Quand’è che un’imprecisione diviene bufala, il pettegolezzo diviene notizia, o la fake news diviene strumento di propaganda o di business? È cambiato lo scenario dei media, i ruoli sono meno chiari e le responsabilità poco definite.

C’è chi per “curare” la malattia delle fake news adopera il fact checking, ossia la confutazione, attraverso strumenti o fonti attendibili, delle bufale che circolano in rete, sui giornali o in tv. Ma così decade automaticamente quella che è, a tutti gli effetti, la maggiore responsabilità dei giornalisti.

Come ha detto l’attore si tratta semplicemente di: «dire la verità. Non solo arrivare per primi, ma dire la verità».

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